MANFREDO TAFURI: POLITICA, STORIA E ARCHITETTURA
ARCHITETTURA E STORIA IN MANFREDO TAFURI
Manfredo Tafuri (Roma, 4 novembre 1935 – Venezia, 23 febbraio 1994) è stato uno storico dell'architettura italiano.
Considerato, quando era in vita, tra i più importanti storici dell’architettura della seconda metà del secolo scorso, le cui riflessioni teoriche sul rapporto tra architettura e modo di produzione capitalistico possono trovare posizioni discordanti.
Tafuri arriva come docente all’Università di Venezia nel 1968 con la convinzione del carattere estremamente composito dell’architettura degli ultimi due secoli e quindi della necessità di ripensare una metodologia di analisi storica. Un progetto di ricerca che sviluppa negli anni successivi concentrandosi sul rapporto tra avanguardie artistiche e metropoli, lavoro intellettuale e ciclo capitalistico, architettura e ideologia. Egli si confronta con le avanguardie artistiche dei primi del Novecento, con l’ideologia e la prassi della pianificazione in Unione Sovietica, con la gestione socialdemocratica delle città austriache e tedesche, con l’architettura e l’urbanistica americana, con la storia dell’architettura italiana dal 1944 al 1985.
Non è facile attraversare il campo teorico individuato da Tafuri, si rischia di mettere il piede su qualche mina. Secondo l'architetto Gregotti sono gli studi di Tafuri sull’architettura del Cinquecento che ci possono illuminare sull’epoca contemporanea e i suoi processi. In modo particolare è il concetto di “compimento”, avanzato da Tafuri nella Ricerca per il Rinascimento, e non quello di “superamento” del Moderno a doverci guidare. Nella sua battaglia contro l’architettura postmoderna Gregotti assegna a Tafuri un ruolo centrale, valorizzando, ma anche forzando, le idee contenute nello studio sul Rinascimento.
Tafuri - impegnato attivamente nel Partito Comunista Italiano. - entra a far parte della redazione della rivista CONTROPIANO nel 1969, quando è ormai diventato più uno strumento di riflessione critica sull’ideologia del “neocapitalismo” italiano che non uno dei possibili luoghi di orientamento e ripensamento di coloro che partecipano ai “movimenti materiali della lotta di classe”. In poco più di due anni Tafuri pubblica quattro saggi: Per una critica dell’ideologia architettonica, Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, Socialdemocrazia e città nella Repubblica di Weimar, Austromarxismo e città “Das rote Wien”. Quattro contributi che anticipano gran parte dei temi della sua elaborazione successiva, e che segnano anche la linea editoriale delle rivista. Il primo saggio sulla critica dell’ideologia dell’architettura apre un dibattito che durerà diversi anni all’interno degli ambienti e delle “comunità accademiche” degli storici e dei teorici dell’architettura moderna
PROGETTO STORICO
In un’intervista del 1986 alla domanda sul ruolo della critica nello sviluppo del discorso architettonico, Tafuri risponde: “La critica non esiste, c’è solo la storia”. Sembra una provocazione. L’affermazione è perentoria e molto impegnativa, ma non è una provocazione. Si fonda sulla riflessione svolta qualche anno prima in uno dei testi più importanti per confrontarsi con il pensiero di Tafuri: La sfera e il Labirinto.
la storia è […] vista come un “produrre” in tutte le articolazioni del temine. Produzione di significati, a partire dalle “tracce significanti” degli eventi, costruzione analitica mai definitiva e sempre provvisoria, strumento di decostruzione di realtà accertabili. Come tale, la storia è determinata e determinante: è determinata dalle proprie stesse tradizioni, dagli oggetti che analizza, dai metodi che adotta; determina le trasformazioni di sé e del reale che decostruisce.
La storia dell’architettura non può essere ridotta ad un’ermeneutica e non ha l’obiettivo di scoprire la “verità”. Il suo compito è spezzare le barriere che essa stessa costruisce, per procedere, per andare oltre. Invece i linguaggi della critica in architettura, nelle comunità accademiche come sulle riviste specializzate, che dovrebbero “spostare e infrangere i sassi”, sono essi stessi dei “sassi”. E per Tafuri non sono nemmeno convincenti le “genealogie foucaultiane” e le disseminazioni di Deridda, perché vanno incontro al pericolo di consacrare i “frammenti analizzati al microscopio come nuove unità autonome e in sé significanti”. La critica di Tafuri a Foucault e Deridda è esplicita, ma non fa uso dell’argomentazione che per rimettere in piedi la storia basta spostare l’attenzione dal “testo al contesto”. Pur riconoscendo che un approccio genealogico evita ogni lineare causalità e si oppone a quelle teologie indefinite che vanno sistematicamente alla ricerca “dell’origine”. I “linguaggi critici” e dei “critici” possono decostruire opere e testi, proporre affascinanti genealogie, illuminare nodi storici occultati da letture di comodo, ma negano sistematicamente uno spazio storico. Infatti si opera costantemente una semplificazione illecita ogni volta che la “buona volontà” del critico fa esplodere la sua cattiva coscienza costruendo percorsi lineari che fanno migrare l’architettura nel linguaggio, questo nelle istituzioni e le istituzioni in una supposta universalità omnicomprensiva della storia. Il vero problema è come progettare una critica capace di mettere in crisi se stessa e la realtà dell’architettura. Un problema irrisolvibile per una critica che si è progressivamente articolata in critica del testo, critica della semantica, critica sociologica, critica delle forme e della composizione architettonica.
Solo la storia è in grado di progettare la propria crisi: il progetto storico è un “progetto di crisi”. Ma che significa fare un progetto storico come progetto di crisi? E quale storia e quale crisi? La storia dell’architettura, dice Tafuri, è il frutto di una dialettica irrisolta, in cui non c’è alcuna nostalgia per le sintesi a posteriori e in cui
L’intreccio fra anticipazioni intellettuali, modi di produzione e modi di consumo deve far “scoppiare” la sintesi contenuta nell’opera.
Le opere architettoniche sono affrontate introducendo una disgregazione, una frantumazione delle loro unità costitutive.
Di tali componenti disgregate sarà necessario procedere ad un’analisi separata. Rapporti di committenza, orizzonti simbolici, ipotesi di avanguardia, strutture del linguaggio, metodi di produzione, invenzioni tecnologiche […] così denudate dall’ambiguità connaturata alla sintesi “mostrata” dall’opera.
Tuttavia nessuna di tali componenti singolarmente servirà a comprendere la “totalità” dell’opera. L’atto del “critico storico” consisterà quindi in una ricomposizione dei frammenti una volta storicizzati. Ma come e in che modo? L’intreccio tra lavoro intellettuale e le condizioni della produzione dell’opera offre un valido strumento per ricomporre il “mosaico” dopo la scomposizione analitica compiuta precedentemente.
Far rientrare la storia dell’architettura nell’ambito di una storia della divisione sociale del lavoro non significa affatto regredire a un “marxismo volgare”, non significa affatto cancellare le caratteristiche dell’architettura stessa. Anzi, queste ultime andranno esaltate mediante una lettura capace di collocare – sulla base di parametri verificabili – il reale significato delle scelte progettuali nella dinamica delle trasformazioni produttive che esse mettono in moto, che esse ritardano, che esse tentano di impedire.
In questa rappresentazione della storia Tafuri usa in modo evidente la categoria marxiana di astrazione determinata e risponde a modo suo - probabilmente è il solo tra i critici e gli storici dell’architettura ad averlo fatto - all’interrogativo di Benjamin sulla posizione dell’opera all’interno dei rapporti di produzione. Una risposta che presenta al proprio interno tutti gli elementi per essere messa in crisi, che richiede di essere messa in crisi. Quindi non uno spaccato storico ma un percorso a scatti all’interno di un groviglio di sentieri con tante “costruzioni provvisorie”. Uno spazio storico in cui la crisi diventa progetto di trasformazione.
Fonte: marxau21.fr